Parigi è e rimarrà
“il centro del bello e dell’orribile, del sublime e del ridicolo, dell’elegante, del grazioso, del pittoresco, del bizzarro, del grottesco, dell’impossibile e dell’assurdo; finché Parigi rimarrà quello che è, l’occhio dell’intelligenza, il cervello del mondo, il riassunto dell’universo, il commento sull’uomo, l’umanità come città, Parigi fornirà materiale per le ricerche del filosofo, le delucidazioni del moralista, le accuse buffonesche del caricaturista, i ritratti del pittore di genere, le riproduzioni, le copie, i dipinti, i dagherrotipi in tutte le loro infinite varietà”.
Così l’incipit di una delle tante opere su Parigi pubblicata sul volgere della metà secolo XIX (Edmond Texier, Tableau de Paris (vol 1), ma considerazioni di questo genere si possono moltiplicare facilmente (si ritrovano già per la Parigi pre-rivoluzionaria, sulla quale si veda Daniel Roche, Il popolo di Parigi). D’altra parte “Parigi è sempre Parigi” ancora oggi, dopo che da tempo ormai la Francia e la sua capitale non esercitano più un ruolo centrale nelle vicende mondiali.

Non stupisce allora se Palazzo Reale Milano e il Museo d’Orsay abbiano deciso di allestire una mostra espressamente dedicata a “Manet e la Parigi moderna”. Per un artista dagli istinti schiettamente cittadini come Manet, Parigi fu una fonte di ispirazione inesauribile per temi, soggetti e classi sociali da ritrarre e indagare. Città sempre in fermento per antonomasia, sono almeno due i fattori che fanno da sfondo a questo costante divenire: l’impetuosa crescita demografica della città, che assorbe 200.000 immigrati in pochi anni e le trasformazioni volute da Napoleone III e commissionate al barone Haussmann.
Parigi cambia volto
200.000 persone sono 200.000 bocche da sfamare, corpi da vestire, abitazioni da costruire, stanze da affittare, da arredare, da scaldare, 200.000 persone che devono trovare una qualche occupazione: 200.000 persone sono una città non trascurabile per quell’epoca. Un flusso migratorio di questa portata costituisce una grande risorsa, ma anche tutta una serie di problemi da affrontare e risolvere.

Molti di questi intendeva risolverli Haussmann con la sua enorme ristrutturazione della città. Nel grande, prolungato rinnovamento della città – dal 1852 al 1870 – si mescolano molti fattori. Oltre ad essere una gigantesca speculazione, la trasformazione della città rispondeva a preoccupazioni politiche e di ordine pubblico (dall’89 le barricate nell’intricato reticolo dei quartieri popolari nel centro città si erano dimostrate un incubo ricorrente per i governanti. Pertanto sgomberare il centro della città da poveri, mendicati, lavoratori a giornata, immigrati con occupazioni saltuarie, artisti di strada, prostituzione ecc. per trasformarlo nel cuore pulsante dell’amministrazione cittadina e nazionale, attorniato da arrondissement destinati alla borghesia medio-alta, e relegare l’umanità più umile e fastidiosa nei quartieri periferici era una soluzione ottima e funzionale, p. 54), igienico-sanitarie (l’epidemia di colera dei primi anni Trenta, dati alla mano, aveva evidenziato una mortalità di gran lunga superiore nei quartieri poveri rispetto a quelli occupati dai benestanti, perciò la grande divisione urbanistica di classe – ricchi nel centro della città, poveri ai margini nelle periferie – era già un primo, invisibile cordone sanitario che tutelava i primi a scapito dei secondi), un modo – infine – per dare una spinta notevole all’economia e contemporaneamente tenere sotto controllo il problema lavoro/disoccupazione.

Non a caso, dopo i terribili decenni Trenta e Quaranta, quando il problema del pauperismo divenne lampante al punto da provocare inchieste documentate, tutta l’economia, sia pure in modo intermittente, andò rivitalizzandosi e le classi sociali cominciarono a stratificarsi con sfumature sempre più frequenti. Non solo entrarono in scena nuove figure in cima alla scala sociale – banchieri, grandi capitani d’industria, uomini d’affari – ma, nel percorrerla verso il basso, si incontrano figure e occupazioni prima inesistenti. Per non sconfinare dal tema del catalogo, si pensi ai mercanti d’arte, nuovi soggetti che fungevano da intermediari tra artisti e collezionisti (su questo, per considerazioni di carattere generale, si veda: Cesare De Seta, Arti della modernità); oppure allo spazio che si conquistano modesti e piccoli editori per un pubblico più ampio e che si sta estendendo, come dimostrano i vari cataloghi delle Expo (su questo, si veda: Anna Pellegrino, Le vetrine della felicità. Le esposizioni universali dal 1851 al 1940): del resto, i milioni e milioni di visitatori che si riversano a curiosare nelle Expo indicano una qualche piccola disponibilità di denaro piuttosto diffusa.
Caffè, ristoranti e locali di ogni genere si moltiplicano; le forme di socialità si intensificano, la vita notturna di Parigi è vivace e prolungata, ci si sposta da un locale all’altro, da una discussione a un’altra (sul mondo della ristorazione della Parigi ottocentesca si veda Jean-Paul Aron, La Francia a tavola) fino al cuore della notte e oltre.


Si pensi all’Opéra, che viene rinnovata, o alla passione che si diffonde per le corse di cavalli; perfino il mondo semi-sommerso della prostituzione si rinnova: il tempo delle antiche cortigiane che dovevano saper discettare di arte, letteratura e musica volge al termine a favore di attrici, ballerine, modelle che le soppiantano nei favori dei clienti. Mondo informe, questo, nel quale spesso la prostituzione è un fenomeno saltuario, talvolta occasionale e collaterale ad altre occupazioni, denunciato decenni prima con scandalizzato moralismo da Duchatelet, ma che invade la città e ne pervade la vita pubblica e privata.

Manet e la città
Un fascio di stimoli incessante, che solletica la sensibilità di un artista completamente assorbito dalla vita della capitale come Manet: non gli sfuggono la forza del progresso impersonata dalla ferrovia, la fatica delle classi lavoratrici, l’arte di arrangiarsi degli artisti di strada, la vita dei Caffè e dei ritrovi. Probabilmente anche per questo, come osserva uno dei saggisti nel libro, Manet resta ancora oggi un artista sfuggente, impossibile da classificare (pp. 63 ss.gg.).
Ma forse – e questa è una mia opinione, perciò probabilmente sbagliata – l’inafferrabilità di Manet deriva anche da molte sue contraddizioni: è amico, sostiene e aiuta gli impressionisti, lavora con loro, ma ci tiene moltissimo ad essere riconosciuto anche e soprattutto nelle esposizioni dei Salon (Fred Licht, Manet, non lo considera un impressionista; per un quadro complessivo degli impressionisti, Sue Roe, Impressionisti. Biografia di un gruppo); definisce gli umili “eroi moderni”, li rispetta e li ritrae, ma è nel mondo delle feste e dei ritrovi mondani quello dove si sente più a suo agio; Borghese per nascita e inclinazioni, pur non esitando a scandalizzare la sua classe di appartenenza, a proprio agio, affascinante e brillante in società, Monet calamita le attenzioni delle donne, mantiene però un rapporto non ben delineato con la Morisot.

Innamorato della città, più di altri suoi colleghi e amici, Manet è affascinato dai suoi abitanti e forse anche questo rimane un problema “irrisolto”: il mondo capovolto de Il bar delle Folie-Bergère è certamente un addio al mondo tanto amato dei ritrovi, ma quel ritrarre la folla degli avventori sfruttando lo specchio restituisce un’immagine che suscita una sottile inquietudine e qualche domanda sulla vera natura di quella sociabilità.

Conclusioni
In conclusione, il catalogo pubblicato da Skira ci offre un Manet e una Parigi a tutto tondo e irriducibilmente intrecciati. Un libro che oltre ad essere magnificamente illustrato, contiene saggi di studiosi e specialisti che guidano il lettore/spettatore in una città dal fascino perenne.
Buona lettura.